[Pacini, Pisa 2018]
Da ormai un decennio la critica letteraria sembra essersi allineata all’interesse teorico per la serialità televisiva. Il tema ha radici, più remote, nel campo della semiotica dei Media e dei TV studies ma ha trovato di recente terreni di discussione ampi – e dall’inedito tasso speculativo – anche nel giornalismo culturale di larga diffusione. Si veda il dibattito di qualche anno fa tra Nicola Lagioia e Aldo Grasso, sulle terze pagine di alcuni quotidiani: combattuto a suon di paragoni – ambigui e volubili, certo – tra romanzo e serie tv, narrativa letteraria e prodotti Netflix. La serialità televisiva è indubbiamente uno dei fenomeni culturali più interessanti e trasversali dei nostri giorni e poche discipline come la teoria della letteratura o la narratologia possono essere più efficaci in un’analisi non superficiale. D’altronde, è stato proprio Fredric Jameson, qualche anno fa, a dare un esemplare modello di analisi, dedicando pagine densissime alla serie statunitense The Wire.
La critica italiana era arrivata già qualche anno fa sull’argomento, con il libro di Gianluigi Rossini Le serie TV (il Mulino, 2016), ad esempio, e con studi altrettanto solidi. Quello che mancava in questa bibliografia in espansione era uno studio interamente dedicato al rapporto tra forme romanzesche e nuova serialità televisiva, e che magari prendesse come angolazione privilegiata proprio quella della teoria letteraria. Proprio in questa posizione, allora, si colloca questo volume di Emanuela Piga Bruni.
La domanda di partenza del saggio è semplice quanto ambiziosa: in che modo le serie contemporanee riprendono temi e tecniche di lunga durata? Il canone scelto da Bruni è limitato ma costruito bene: Lost, Mad Men e Breaking Bad sono le serie che vengono continuamente confrontate con testi appartenenti alla tradizione del romanzo moderno (Balzac, Dostoevskij, Dickens, James, George Eliot). Proprio per le serie scelte da Bruni, le triangolazioni tra serie tv e narrativa potrebbero essere ancora più numerose: si pensi ai continui ammiccamenti che una serie come Mad Men fa ad autori come Kafka o, addirittura, Dante.
Il tema centrale nel libro di Bruni riguarda, come dice il titolo, il senso della fine nelle narrazioni televisive e romanzesche. «Nonostante il carattere di infinito intrattenimento delle serie tv contemporanee, l’attenzione rivolta al finale di serie da parte degli showrunner, della critica e del pubblico testimonia la centralità di questo elemento narrativo nella composizione e ricezione dell’opera audiovisiva», scrive Bruni. Nella scelta di una angolazione di analisi così specifica come quella dei finali, le argomentazioni della studiosa colgono una specificità vera, e forse troppo poco approfondita, della serialità contemporanea: l’ossessione per «come finisce» una serie è, oggi, nell’esperienza di molti spettatori, un banco di prova decisivo nel giudizio su quella serie. Si pensi alle polemiche di qualche anno fa sul finale aperto e ambiguo dei Sopranos o alle più recenti discussioni sull’ultima stagione di Game of Thrones.
Perché siamo così ossessionati dal finale delle narrazioni? Nel rispondere a questa domanda, Bruni mobilita le brillanti (ma forse invecchiate?) argomentazioni di studiosi come Brooks e Kermode. Se analizziamo le narrazioni romanzesche e quelle televisive a partire dalla fine, sembra suggerire Bruni, ritroviamo archetipi narrativi comuni: come i grandi cicli romanzeschi, le serie contemporanee hanno un sistema narrativo di «grandi proporzioni» nel quale il piacere del testo viene continuamente dilatato e, spesso, posticipato; nei romanzi e nelle serie, c’è poi un sistema corale di personaggi che continuamente sollecita la memoria del lettore/spettatore e ne inspessisce l’esperienza estetica. E, forse, proprio in questo legame dinamico e problematico con i personaggi è custodita una possibile verità sulla nostra ossessione di spettatori per il finale delle serie contemporanee.
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